di Maria Chiara Andriello
Responsabile Accessibilità Rai Pubblica Utilità

 

La disabilità, così come definita dall’Organizzazione mondiale della sanità, è quella condizione che viene a crearsi da un’interazione negativa dell’individuo con i fattori fisici, sociali e culturali del mondo in cui vive. L’accessibilità, invece, dovrebbe garantire l’abbattimento di ciò che si frappone tra ognuno di noi e la possibilità che abbiamo di poter fruire, pienamente, di tutti i servizi e di tutte le idee che vorremmo cogliere.

Quindi, laddove si realizzasse una accessibilità piena, non dovrebbero, in base a quella che è la definizione dell’Organizzazione mondiale della sanità, crearsi situazioni di disabilità. Questa, però, è una visione utopistica perché, con tutti gli sforzi che si possano fare, diventa veramente complicato riuscire ad abbattere tutti quegli elementi di difficoltà che impediscono alle persone di vivere pienamente nella società usufruendo di tutte le attività, i beni e i servizi.

Tratterò, d’ora in poi, prevalentemente dell’accessibilità nella comunicazione, quindi di accessibilità nella comunicazione in Rai, un broadcaster che produce prodotti audiovisivi.

Pensiamo a tutti i linguaggi che vengono utilizzati, da quello giornalistico alle comunicazioni narrative come film, fiction, serie tv. L’accessibilità di cui parliamo, è quella che si propone l’obiettivo di abbattere, almeno un po’, i limiti e le difficoltà che si frappongono tra chi non vede e chi non sente e la possibilità di poter comunque godere e comprendere le immagini che passano sul suo video e sui social che noi gestiamo. L’accessibilità che vuole abbattere la difficoltà, ad esempio per le persone sorde, di comprendere le parole di tutto quello che noi trasmettiamo in termini comunicativi.

La Rai, essendo un broadcaster pubblico, rende possibile l’accessibilità in base a precisi obblighi del contratto di servizio che impone di rendere accessibile, perlomeno in alcune modalità e entro alcuni limiti, i programmi che produce.

Proprio perché crediamo fondamentalmente che l’accessibilità sia un bene comune, un servizio pubblico reale, cerchiamo di spingerci oltre quelli che sono gli obblighi imposti dal contratto e, negli ultimi anni, abbiamo sviluppato molto in termini di ore di prodotti trasmessi sia la sottotitolazione e le audiodescrizioni con sottotitoli e audiodescrizioni, come pure abbiamo implementato forme di sperimentazione sulla comunicazione accessibile.

Ci siamo resi conto, lavorando giorno dopo giorno su queste tematiche, che una comunicazione che sia accessibile, vale a dire sia completa nel sottotitolo che nella traduzione LIS per le persone prevalentemente sorde e nell’audiodescrizione per le persone cieche, comunque vuol dire fare una comunicazione che ha una portata aumentata. Questo non solo, banalmente, perché riesce ad arrivare anche a chi non vede e a chi non sente, ma anche perché riesce a portare determinati messaggi in maniera rafforzata anche a chi vede e sente. Peraltro, la disabilità è una condizione con la quale tutti noi possiamo avere a che fare ogni giorno, perché ci sono anche quelle che noi definiamo “disabilità situazionali”. Ad esempio, se siamo all’interno di un locale affollato e desideriamo poter ascoltare il messaggio che sta passando su un video, senza sottotitoli ciascuno di noi è impossibilitato a percepire il contenuto in oggetto. La stessa difficoltà sorge se siamo in macchina e stiamo ascoltando la radio: non riusciamo a comprendere pienamente la narrazione se non c’è qualche descrizione che aiuta a visualizzare la situazione per chi, in quel momento, non può vederla.

Chiunque di noi, in qualsiasi momento, può trovarsi in una situazione di disabilità temporanea per un periodo della propria vita: potremmo avere l’impossibilità di sentire o l’impossibilità di vedere o di camminare così come, con l’avanzare degli anni, potremmo avvertire una difficoltà crescente di sentire, di vedere e di camminare. Per questo, non potendo completamente abbattere tutte le barriere, trovare i modi per creare situazioni che possano migliorare la condizione di disabilità è un bene comune, qualcosa che può servire a ciascuno di noi in qualsiasi momento della vita.

Per dare un’idea di quelli che sono i numeri dell’accessibilità che, come Rai, attualmente garantiamo siamo a 22.000 ore di sottotitoli sulle reti generaliste e sui canali tematici, ed oltre 4.500 ore di audiodescrizione.

Lo sforzo che può favorire chi opera nel mondo della comunicazione è quello di pensare alla disabilità cercando di trovare soluzioni che vadano incontro alla disabilità stessa. Noi, come operatori di comunicazione accessibile, stiamo tentando di metterci nell’ottica di “pensare accessibile”, ovviamente limitatamente a quelle che sono le disabilità sensoriali, per evitare di creare prodotti su cui andare, a posteriori, a dover inserire i sottotitoli, le traduzioni in LIS o le audio-descrizioni, ma pensando fin dall’origine come poter realizzare prodotti che tengano in considerazione queste necessità. Ad esempio, nel caso di un giornalista che deve fare un servizio di cronaca, al di là di raccontare il fatto di per sé e dare qualche informazione di contesto, potrebbe dire: «ci troviamo in una piazza al centro del paese», oppure «nella piazza ci sono molte persone» piuttosto che «la piazza è chiusa al traffico locale» in modo da dare delle indicazioni che aiutano la persona che non può vedere le immagini a contestualizzare quanto sta accadendo. Sono indicazioni che aiutano anche la persona che vede a inquadrare meglio la situazione focalizzando l’attenzione su elementi che potrebbero sfuggire alla visione perchè distratti da qualcos’altro, soprattutto dai social.

Per quanto riguarda il parlato, inteso come terminologia e come modo con cui raccontare il mondo, chi si occupa di comunicazione dovrebbe stare attento ad una dizione il più possibile corretta per agevolare l’operazione di sottotitolazione: evitare possibili inflessioni dovute al contesto in cui si opera, cercare di parlare lentamente, scandendo bene le parole, comporre frasi non troppo complesse da un punto di vista sintattico e grammaticale al fine di agevolare la percezione delle persone sorde, che sempre di più si avvalgono di protesi acustiche, e l’operazione di sottotitolazione.

Sono piccoli accorgimenti che è bene tenere in considerazione che non debbono essere necessariamente vincolanti nel momento in cui si sta facendo un lavoro ma che stimolano a trovare una modalità che metta insieme le esigenze della narrazione con quelle dell’esatta percezione da parte di chi riceve la comunicazione. Sperimentazioni di questo tipo le stiamo facendo nei programmi che creiamo, sensibilizzando i conduttori stessi delle trasmissioni a fornire informazioni di contesto.

Quello che siamo tentato di fare è sensibilizzare alla cultura dell’accessibilità, che è un processo culturale che ha bisogno di un periodo di tempo per potersi evolvere e andare a regime. Abbiamo notato, però, che nel momento in cui si propongono sempre di più prodotti accessibili questa sensibilizzazione, da parte degli utenti, aumenta e quindi si riescono a sensibilizzare anche gli operatori della comunicazione. In alcuni casi chiediamo addirittura al conduttore di cercare di dare conto dei suoi spostamenti sul set televisivo e descrivere quello che c’è all’interno dello studio.

Proprio in virtù del pensare in maniera accessibile dall’origine, noi operatori, ci siamo seduti attorno a un tavolo e abbiamo scelto di creare una sigla che, ovviamente, si compone di elementi grafici e quindi andrebbe descritta per essere percepita anche di chi non può vedere. A questo punto abbiamo optato per una soluzione appetibile che non abbia bisogno di sovrastrutture successive per essere resa accessibile a tutti: abbiamo creato una sigla che avesse zero elementi grafici da descrivere, in maniera da adottare una comunicazione che fosse omogenea e fruibile da tutti allo stesso modo. Qui giova molto richiamare il concetto di equità: ossia cercare di mettere tutti, veramente, nella stessa condizione. L’equità significa proprio dare a tutti la possibilità di fruire del medesimo contenuto in base alle caratteristiche personali di ognuno.

Un altro suggerimento per chi si occupa di comunicazione è quello di non sottolineare la disabilità di un protagonista televisivo se questa informazione è ininfluente e non porta nessun valore aggiunto, rispetto al suo ruolo e al messaggio da inviare al pubblico. Ad esempio se introduco un pianista cieco sarà cura del conduttore utilizzare un linguaggio che lo aiuti a comprendere ciò che sta avvenendo nel contesto ma non sarà necessario che il conduttore sottolinei la sua condizione di persona cieca. Affermarlo pubblicamente creerebbe una discriminazione, perché metterebbe l’accento su una diversità su un fattore del tutto ininfluente rispetto all’azione che dovrà compiere.

Sui social, la Rai manda tutti i suoi promo con una comunicazione aumentata (sottotitoli e audiodescrizione, talvolta anche la traduzione LIS), quindi completamente accessibili. Stiamo cercando di fare lo stesso anche con i promo che vanno in onda sui canali generalisti per permettere a chiunque accende un televisore di avere lo stesso servizio. In questo modo tutti noi possiamo recepire il promo a 360 gradi utilizzando tutti i nostri sensi: ci arriva con un’efficacia maggiore e arriva anche a chi, in quel momento, ha qualche difficoltà sensoriale. Un buon esempio è il promo sul Macbeth realizzato anni fa per la prima della stagione della Scala 2021/22. Se non ci fosse stata la narrazione di ciò che stava avvenendo la persona non avrebbe avuto la possibilità, in 30 secondi, di comprendere qualcosa. Laddove ci sono immagini con un senso rilevante vanno necessariamente raccontate, descritte alla persona che non può vedere o alla quale in quel momento è impossibilitata, per le ragioni più disparate, a vedere, altrimenti la comunicazione arriva incompleta.

 

La comunicazione deve arrivare al maggior numero di persone, essere condivisa. Il termine inclusione potrebbe essere sostituito con quello di condivisione universale, la più ampia condivisione possibile di ciò che produciamo. Si deve pensare, progettare e realizzare pensando alla maggiore condivisione di quel prodotto: una persona che non riesce a percepirlo non può condividerlo, quindi ne rimane necessariamente esclusa.

Per dare un esempio di come l’accessibilità sia importante e utile ad ognuno di noi e come sia necessario portarla in qualsiasi ambito della nostra vita faccio riferimento alle rilevazioni Istat che hanno appurato che la condizione di vita comune delle persone con disabilità migliora, si sentono molto più realizzate, quanto più possono partecipare alla vita, intesa in tutte le sue sfaccettature, quindi alla vita sociale, ma anche alla vita culturale.

Anche su questo versante stiamo cercando di dare una mano all’evoluzione, sempre maggiore, dell’accessibilità in ambito museale proprio perché molta parte di cultura viene negata o viene resa complessa alle persone con disabilità, quando ci sono gli strumenti che renderebbero possibile una maggiore accessibilità. Quindi stiamo tentando di sensibilizzare i musei a fare in modo che, per lo meno parzialmente, si cominci a porre una forte attenzione a questo e ci siamo resi conto di come questi prodotti, accessibili, vengano molto graditi anche dalle persone che vedono e che sentono in quanto aiutano tutti noi a focalizzare meglio alcuni elementi che altrimenti non vedremmo. Si veda l’esempio del video che abbiamo realizzato, con sottotitoli e LIS, partendo da una descrizione della foto a beneficio della persona cieca, tratta da una mostra fotografica di Helmut Newton fatta all’Ara Pacis di Roma: bit.ly/ara-pacis.

La persona che traduce in LIS dà maggiore forza ed efficacia all’immagine, rispetto al solo aver visto la foto, anche ad ognuno di noi. Immaginiamo una persona che avrebbe potuto solo minimamente comprende cosa era raffigurato nella foto, perché cieca, o la persona sorda che senza l’ausilio della traduzione LIS e del sottotitolo, non riusciva comunque a percepire gli elementi e le informazioni generali che sono stati dati. Peraltro, la traduttrice LIS che noi abbiamo coinvolto in questo progetto è una ragazza sorda e lo esplicito per confermare l’importanza di coinvolgere le persone con disabilità nella realizzazione di tutte quelle soluzioni e di tutti quei meccanismi che li riguardano.

Lavorando a stretto contatto con persone sorde, ci siamo resi conto dell’importanza e dell’imprescindibilità del loro coinvolgimento nel momento in cui realizziamo dei prodotti, l’esigenza primaria di riuscire a comprendere alcune cose che si vivono o si vedono in maniera migliore fa sì che ci diano delle indicazioni fondamentali e il processo di innovazione e sperimentazione che noi stiamo portando avanti prevede uno scambio diretto con l’utenza.

A questo punto è bene rimarcare che anche il linguaggio che si usa dovrebbe essere un linguaggio accessibile, il più possibile corretto, ma soprattutto non discriminatorio che metta al centro la persona. Quindi mai dire, ad esempio: “il down” e “l’autistico”. Al centro c’è la persona che ha una caratteristica, quindi la persona con sindrome di Down, la persona con spettro autistico, la persona con disabilità: questa parola è il minimo indispensabile per una terminologia corretta. Risulta altrettanto importante, come già rimarcato, coinvolgere sempre le persone con disabilità per comprendere come preferiscono essere rappresentate, se desiderino che venga evidenziata o meno la loro situazione e, comunque, trovare insieme a loro l’esempio migliore. Spesso è utile anche il confronto con le associazioni che si occupano di persone con disabilità per trovare, rispetto a ciascuna disabilità, il modo più corretto per rappresentarle, però sempre partendo da un coinvolgimento diretto della persona.

Ribadisco anche che non dev’essere utilizzato il “diversamente da qualcosa”, quindi “diversamente abile”. La terminologia corretta è: persona con disabilità, così come non va mai fatta la negazione, quindi non va detto: “non udente, non vedente” ma cieco e sordo, in quanto è una caratteristica della persona. Non va enfatizzata la negazione che in alcuni casi della vita riguarda dell’udito, in altri casi può essere di qualsiasi altra tipologia.

In merito al concetto di neurodiversità: viene utilizzato come quello di biodiversità e sta ad indicare che esistono varie caratteristiche neurologiche, così come biologicamente esistono varie caratteristiche biologiche; in realtà noi abbiamo le caratteristiche che vengono definite neurotipiche e neurodivergenti. Parlare di caratteristiche tipiche o divergenti rimarca che certe caratteristiche appartengono ad un numero maggiore di persone o ad un numero minore, ma non c’è diversità: è solo l’essere tipiche in quanto appartenenti alla massa delle persone o essere divergenti in quanto non appartengono alla massa maggiore di persone.

Un altro errore è quello di enfatizzare solo la figura dell’atleta paraolimpico come fosse l’emblema della persona con disabilità: non vanno enfatizzate le caratteristiche che appartengono solo a un numero minimo di persone con disabilità ma andrebbe raccontata la normalità partendo dalla realtà che ogni persona disabile e non disabile vive ogni giorno. La disabilità non dovrebbe essere raccontata né come figura eroica ma nemmeno come vittima: è una persona che, come ognuno di noi, in alcuni momenti si trova a vivere situazioni che possono essere più discriminatorie e, comunque, non va rappresentata assolutamente come vittima. Purtroppo in questo errore di narrazione spesso si cade anche nelle campagne pubblicitarie: alcune rappresentavano questi bambini con un mantello, come se fossero dei supereroi. In queste campagne si pensa di andare a compensare ciò che viene definita una mancanza con un superpotere. É una cosa assolutamente aberrante da non fare mai. Un bambino con disabilità va rappresentato come un bambino nella sua normalità e nel suo rapporto con la vita di tutti i giorni.

Quando, ad esempio, si parla di una persona che si avvale di una carrozzella per camminare. è sbagliato dire: “costretto in carrozzella”. Basta semplicemente dire che una persona utilizza la carrozzella per i vari spostamenti logistici.

Le parole sono importanti, le parole mostrano la cultura, il grado di civiltà, il modo di pensare, il livello di attenzione verso i più deboli. Non si tratta di un’esagerazione: cambiamo linguaggio e cambieremo il mondo. Per cambiare linguaggio andrebbe cambiata anche la cultura di ognuno di noi e la prospettiva con cui guardiamo le cose, il mondo che ci circonda e anche le persone con disabilità.