Di Michela Possamai
Presidente ISRE

«Si ha cura quando si sa salvaguardare la trascendenza dell’altro, ossia quando lo si incontra sempre stando in ritardo rispetto al proprio se’; ciò significa essere capaci di attivare una forma di sollecitudine ispirata al principio del rispetto».
(Luigina Mortari e Ingrid Paoletti, La cura, 2021)

La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle Persone con disabilità è stata approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006. L’Italia l’ha ratificata con la Legge 18 del 3 marzo 2009.

Sono due gli articoli, da cui si evince la parola “rispetto”, che precedono il 24 dedicato all’ Educazione che così recita:

  1. Gli Stati Parti riconoscono il diritto all’istruzione delle persone con disabilità. Allo scopo di realizzare tale diritto senza discriminazioni e su base di pari opportunità, gli Stati Parti garantiscono un sistema di istruzione inclusivo a tutti i livelli ed un apprendimento continuo lungo tutto l’arco della vita, finalizzati:

(a) al pieno sviluppo del potenziale umano, del senso di dignità e dell’autostima ed al rafforzamento del rispetto dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della diversità umana;

(b) allo sviluppo, da parte delle persone con disabilità, della propria personalità, dei talenti e della creatività, come pure delle proprie abilità fisiche e mentali, sino alle loro massime potenzialità;

(c) a porre le persone con disabilità in condizione di partecipare effettivamente a una società libera.

Ovvero: l’articolo 22 (Rispetto della vita privata) e l’articolo 23 (Rispetto del domicilio e della famiglia). Entrambi ci richiamano alla parola “rispetto”.

Una semantica, quasi ontologica del testo della Convenzione che riguarda le persone con disabilità, CI richiama tutti, come ha sottolineato recentemente anche Papa Francesco quando, proprio a proposito della Convenzione, in questi giorni ha sottolineato che nel testo della Convenzione, si toglie il linguaggio del “il noi e il loro” perché esiste solo un noi.

Questa scelta semantica risulta ben rappresentata anche dall’art 19 della Convenzione quando si  sostiene: «Indipendentemente dalle nostre caratteristiche, tutti godiamo degli stessi diritti…

È riconosciuto il diritto di tutte le persone con disabilità alla stessa libertà di scelta delle altre persone».

Ergo, credo che la precondizione per il pensiero e l’esercizio di parole per persone con disabilità sia la sussistenza del concetto di rispetto nella sua accezione semantica, filosofica e pedagogica. Non solo:

La Dichiarazione introduttiva dell’Agenda 2030 assimila il credo «Leave no one behind» (non lasciare indietro nessuno) per il raggiungimento dei 17 obiettivi per uno sviluppo sostenibile, richiede infatti ai paesi industriali e in via di sviluppo, di «non tralasciare nessuno nello sviluppo globale».

Approvati a settembre 2015 dalle Nazioni Unite, i 17 obiettivi sostituiscono i precedenti otto obiettivi del millennio dell’anno 2000 ed includono esplicitamente le persone con disabilità.

La prospettiva è porre fine all’estrema povertà che spesso è anche conseguenza di mancanza di rispetto istituzionale delle persone con disabilità.

Per la prima volta alcuni obiettivi sostenibili considerano le persone con disabilità: ad es. gli obiettivi 1-2-4-6-8-10-11-17.

L’Onu, per la prima volta l’anno scorso, ha analizzato lo stato dell’arte rispetto ai 17 SDGs delle persone con disabilità constatando: più diffusa povertà, minore accesso a salute, istruzione e lavoro, inaccessibilità dei trasporti pubblici, maggiore rischio di violenza.

In particolare, il Rapporto “Un Flagship Report on Disability and Development 2018: Realization of the Sustainable Development Goals by, for and with persons with disabilities”, lanciato dal Dipartimento per gli affari economici e sociali delle Nazioni Unite il 3 dicembre in occasione della Giornata internazionale delle persone con disabilità, rappresenta la prima analisi sistemica dell’Onu che mette in relazione il tema della disabilità con gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 a livello globale.

Rispetto all’Obiettivo 16 (pace, giustizia e istituzioni solide), ad esempio, si evidenzia che le persone con disabilità sono particolarmente esposte al rischio di violenza. I dati raccolti in cinque Paesi in via di sviluppo rivelano che una persona su cinque è oggetto di violenza verbale o fisica a causa della disabilità. In media, in 35 Paesi (soprattutto nell’Ue) il 13% delle persone con disabilità è esposto a un ambiente violento, rispetto al 10% di quelle senza disabilità, e in Italia la percentuale è addirittura più che doppia. Inoltre, in alcuni Paesi più del 90% delle persone con disabilità che necessita di consulenza legale non è in grado di riceverla.

Il rapporto richiama quindi uomini e donne, la società e le Istituzioni al rispetto della prevenzione per i soggetti più fragili e vulnerabili in situazioni di disabilità e di pregiudizio.

Ma vediamo più da vicino la parola “rispetto”: deriva dal latino respectus-respìcere che significa riguardare, avere riguardo, prendersi cura; avere riguardo non soltanto per altre persone, ma per ogni forma di vita, oggetto/cosa inanimata, norme e istituzioni, ripudiando ogni forma di violenza a cominciare da quella verbale, così pregna di pregiudizi, stigmi, offese, ingiurie, molestie, torture di identità, ripudio di imperfezioni.

Per parlare di persone con disabilità:

  1. Dobbiamo riconsiderare il rispetto quale forma di riconoscimento: riconoscere l’individuo a me simile, riconoscere il valore intrinseco di una persona o di una cosa, riconoscere come valida una norma o un’istituzione, riconoscere l’umanità dell’altro come la nostra stessa umanità quindi come presupposto di reciprocità, riconoscere in più generale il valore dell’esistenza di altri. Oggi dobbiamo condividere e promuovere un’idea di rispetto che porta con sé la parola riconoscimento. A questa idea di rispetto come riconoscimento dell’altro e della sua possibilità di affermazione e di realizzazione individuale, chiunque esso sia e a prescindere dal carattere di autorità e/o di eccezionalità che gli può essere riconosciuta, si arriva, secondo Mordacci, in modo particolare grazie al lavoro di Immanuel Kant.

Cosa fa Kant? Considera l’autonomia di ciascun individuo come “il fondamento della dignità della natura umana” e giunge alla conclusione che ogni persona ha egual valore in quanto unica, libera e autonoma e in quanto dotata della possibilità di libero volere e della capacità critica di autogoverno. In pratica, Kant riconosce a ciascun essere umano quel carattere di superiorità (nel passato legato all’idea di autorità e di eccezionalità) che genera rispetto ed è soggetto di doveroso rispetto.

  1. Dobbiamo sdoganare le parole che storicamente associano il rispetto a un’autorità o a un potere, come qualcosa di esteriore al soggetto, implicando quindi un rapporto di totale asimmetria fra un superiore e un inferiore. Si tratta di una forma ereditata e tramandata di rispetto verticale, dove si riconosce l’autorità. Lo stesso Cristianesimo ha portato avanti l’idea di una forma di rispetto verticale, verso un’autorità somma e assoluta quale fonte dell’esistenza; traducendosi poi nella possibilità di pensare una forma di rispetto di tipo orizzontale: ogni uomo è uguale al cospetto di una tale autorità, non conta la posizione sociale, la ricchezza o le qualifiche individuali, le abilità, le disabilità, le normalità e le deformità, ciò che conta e che ci accomuna è l’essere uomini.

Il primo ad aver fondato un’etica del rispetto su un piano orizzontale fu Kant, il quale però riconosce un potere incondizionato non più a Dio ma alla libertà umana. Libertà che non si traduce nel fare ciò che si vuole, ma nell’agire secondo la legge morale: «Agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua come nella altrui persona, sempre come fine e mai come semplice mezzo».

La legge morale così espressa nella forma di imperativo categorico, non può mai dipendere dal suo contenuto concreto, essa è invece tale per la sua forma di legge, cioè per la sua intrinseca razionalità: la legge morale è tale perché vale universalmente, senza eccezioni. La legge morale è il frutto della nostra stessa razionalità, è un nostro prodotto e pertanto dipende da noi.

Ciò significa che dobbiamo agire avendo presenti gli altri, avendo cura degli altri, rispettando la loro dignità e fragilità.

Molto spesso ci dimentichiamo di essere l’uno uguale all’altro, non troviamo parole che ci uniscono ma ci prendiamo la libertà di trattare l’altro, la natura o un semplice oggetto come entità inferiori, in virtù di una nostra ipotetica superiorità; ci dimentichiamo che l’altro, la natura o l’oggetto hanno i nostri stessi diritti, tra questi vi è proprio quello di essere rispettati, rispettati nella nostra unicità e individualità, nella nostra integrità e persona, indipendentemente da ciò che portiamo o meno con noi.

Dal punto di vista educativo e pedagogico:

  1. il rispetto orizzontale va educato e va narrato empiricamente: respectus, da respicere ossia “guardare indietro”, composto di re- indietro e spicio guardare, di cui parlano Mortari e a Paoletti, come educare e narrare quel sentimento che porta a riconoscere i diritti, il decoro, la dignità e la personalità stessa di qualcuno, e quindi ad astenersi da ogni manifestazione e parola che possa offenderli. Il rispettoporta l’individuo, non solo ad avere riguardo nei confronti della personalità dell’altro, ma anche a non intraprendere azioni o atteggiamenti che possano, in qualche modo, offendere la persona per la quale si porta rispetto;
  2. i due imperativi di Kant, in fondo, ci invitano ad estendere a tutti, oltre e con le persone con disabilità, agli altri, e, quindi, anche ai meno avvantaggiati, ai diversi, agli appartenenti a differenti etnie, quelle regole fondamentali del rispetto di sé, della propria libertà, della propria dignità, delle proprie idee che, se fossimo liberi di scegliere, porremmo a salvaguardia della nostra vita e della nostra dignità di individui.

Molto spesso parliamo di rispetto con leggerezza, in modo astratto o retorico, pretendiamo il rispetto dagli altri ma poi siamo i primi a dimenticarcene; il più delle volte lo diamo per scontato, quasi come se fosse una norma morale universale, senza però essere consapevoli che esistono persone che non sanno cosa sia tanto talora da abusarne.

Per Alberto Peretti, Professore associato del Dipartimento di Scienze economiche presso l’Università di Verona, «Il rispetto consiste infatti nella percezione della “dimensione di profondità” del mondo, persona o cosa che sia, della sua “trascendenza individuale”. E’ la sensibilità verso lo spessore delle cose, è capacità di accorgersi che il mondo, e gli esseri che lo abitano, sono inesauribili».

Nelle pratiche quindi, anche politiche e istituzionali, rispetto implica riconoscimento e apprezzamento.

Con il PNRR sappiamo che si è potuta licenziare la Legge 227/21 con la quale il Senato ha delegato, con la presidenza Draghi al Governo, in materia di disabilità, gli strumenti per attuare la Convenzione ONU con alcune novità:

Con la partecipazione della persona con disabilità si elabora il progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato per l’effettivo godimento dei diritti e delle libertà. Il progetto rispetta l’obiettivo di realizzare gli obiettivi della persona con disabilità secondo i suoi desideri, le sue aspettative e le sue scelte.

Rispettare i desideri delle persone con disabilità tutte, senza considerare per loro diritti speciali ma copartecipazione, è una rivoluzione copernicana.

Alla Legge citata sono seguiti i decreti delegati che pochi giorni fa sono stati approvati da questo Governo. I Servizi saranno riconosciuti, ad es. e di conseguenza, come “una dote accessoria” della persona con disabilità e non come “una retta a contribuzione” per la famiglia della persona con disabilità: serviranno certamente competenze diverse per immaginare e programmare questi Servizi ma anche delle competenze e atteggiamenti simmetrici di rispetto paritetico tra progettista e disabile in copartecipazione. Il rispetto non è quindi pura formalità, ma un preciso obiettivo strategico ed operativo.

Riflettiamo quindi, più spesso, sull’uso attuale della parola rispetto quando trattiamo di persone con disabilità. Ricordiamo la genealogia del rispetto. Decliniamo una vera e propria, seppur “piccola filosofia del rispetto”. Queste riflessioni pongono alcune questioni di grande attualità anche dal punto della comunicazione.

Il rispetto inteso come rispetto tra pari, che vale tra tutti e per tutte le persone, è una concezione, una  conquista moderna. Nell’antichità sappiamo che non esisteva questa idea di rispetto, che invece veniva declinato e vissuto o come deferenza/soggezione, verso un’autorità, un potere costituito o una divinità; o come stima o apprezzamento verso qualcuno cui veniva riconosciuto un carattere di eccezionalità, per una particolare performance o per un inusuale virtuosismo.

Nel primo caso la parola rispetto era connessa alla parola autorità; nel secondo caso invece alla parola eccezionalità. In entrambi i casi il rispetto rimandava a un’idea di superiorità di qualcuno che, in quanto superiore, prevedeva o pretendeva l’esercizio di un atteggiamento rispettoso (da chi superiore non era).

Da tale conquista derivano, infine, almeno altri due stimoli, non banali nel tempo che stiamo vivendo, che vale la pena condividere.

Il primo è la distinzione tra “uguale rispetto” e “rispetto diseguale”.

“Uguale rispetto” è quell’idea di rispetto, già proposta da Kant, ripresa anche da Salvatore Veca, oltre che contenuta nella prima parte dell’articolo 3 della nostra Costituzione, che riconosce a ogni persona pari valore e dignità.

“Rispetto diseguale” va invece inteso, con Mordacci, come «rispetto per la persona nella sua singolarità, non per il concetto di persona in astratto, ma per la persona individuale, ovvero per l’incarnazione singola e irripetibile della sua libertà». In questo caso è interessante uscire da una declinazione astratta e di principio di rispetto come riconoscimento e capire gli impatti di una definizione concreta di rispetto.

Ad esempio, chiedendoci quanto nella vita di tutti i giorni e nelle pratiche educative ed istituzionali siamo capaci, e prima ancora intenzionati, di riconoscere possibilità di affermazione e di realizzazione all’altro per quello che è, soprattutto se lo percepiamo come lontano e/o diverso da noi, facendo nostri i suoi bisogni, i suoi interessi e i suoi scopi.

Il secondo stimolo è legato alla distinzione tra “rispetto attivo” e “rispetto  passivo”.

Abbiamo già condiviso la definizione di rispetto attivo come riconoscimento dell’altro e della sua possibilità di affermazione e di realizzazione individuale. Il rispetto passivo va invece inteso come rispetto formale, ossia come il non prevaricare, il non fare niente di irrispettoso verso l’altro, il non ostacolare la sua possibilità di affermazione. In genere, se chiediamo a qualcuno se pensa di essere una persona rispettosa o irrispettosa, chiunque ci risponderà che ritiene di essere una persona rispettosa.

Talvolta c’è chi precisa che è solitamente rispettoso, a meno che qualcun altro non sia prima irrispettoso verso di lui o di lei.

La seconda interessante suggestione è accogliere la sfida di essere attivamente rispettosi, ovvero: persone che promuovono e perseguono una cultura del rispetto attivo; che vivono la loro mission di ruolo impegnati nel generare contesti in cui le persone con disabilità  possono esprimersi per quello che sono; che si prodigano affinché le organizzazioni diventino sempre più luoghi di realizzazione e di affermazione per qualsiasi persona, per quello che quella specifica persona è e non per quello che vorremmo che fosse o non può essere, purché disponibile a dare il proprio unico e particolare contribuito per il bene comune.

Mi sembra, soprattutto in questo momento storico, una sfida intrigante, attuale e praticabile.

Si tratta di concepire il nostro mondo e perfino il nostro modo di pensare come “accessibile”: si tratta di costruire “scivoli” e ingressi accessibili dentro di noi, per rispettare noi tutti per il nostro individuale comune e giusto valore, oltre le barriere da abbattere.

Che può diventare realtà e che necessita di visione, consapevolezza e impegno quotidiano.

Del resto, diceva Tiziano Terzani: «il rispetto nasce dalla conoscenza e la conoscenza richiede impegno, investimento, sforzo».