Di Carlo Francescutti
Già coordinatore del CTS dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità
Mi rendo conto di quanto sia difficile la comunicazione di ciò che appartiene al mondo della disabilità. Noi stessi, operatori dei servizi, spesso facciamo confusione e utilizziamo un linguaggio non adatto. A volte, inoltre, la comunicazione di questo mondo è attraversata da tendenze che hanno poco senso: ad esempio oggi tutti parlano di “inclusione”, parola che domina oggi nel nostro linguaggio. Ci sono confusioni nella comunicazione o cacofonie che, spesso, generano fastidio nelle espressioni, poi c’è tutto il buonismo, il pietismo che ha accompagnato la comunicazione sulla disabilità per non parlare, infine, dell’ultima drammatica dimensione del politicamente corretto. Si tratta, invece, tratta di capire veramente cosa si vuol dire, cosa si vuole trasmettere in modo chiaro e preciso, ricco di significato, quando si parla del mondo e delle persone con disabilità.
Ho quindi veramente una grande considerazione per il vostro mestiere, perché penso che abbiamo bisogno di comunicare in modo più chiaro, più comprensibile, ricco di significato. Non bastano le norme, le cornici giuridiche perché cambino le condizioni di vita delle persone.
Ci vuole un’azione attiva, ci vuole un impegno specifico perché queste norme siano rispettate. Il rispetto delle norme implica rispetto per le persone e quindi attraverso la comunicazione si aiuta un processo di trasformazione culturale che è necessario perché tutte le cose che diciamo acquistino significato.
Persone con disabilità: perché utilizziamo questa espressione?
Questa espressione accomuna alcune caratteristiche specifiche che hanno un significato etico, culturale e sociale e identificano una condizione umana che non è la condizione umana di un gruppo minoritario, è una condizione umana che ha caratteristiche universali. Tutti noi, nella nostra esistenza, vivremo una condizione di disabilità, quindi, quando parliamo di persone con disabilità parliamo potenzialmente di tutti noi. È proprio questo l’aspetto fondamentale.
Un altro criterio per capire che linguaggio usare è quello di chiederci come le stesse persone di cui parliamo vorrebbero che ci esprimessimo su di loro: questa considerazione è emersa dopo un lungo confronto, anche nei tavoli internazionali di discussione, in particolare all’interno delle Nazioni Unite. Vorrei invitare tutti a leggere il documento delle Nazioni Unite: “Disability. Linee guida per un linguaggio opportuno” così da riuscire a identificare la disabilità con le parole più adeguate e creare un linguaggio comprensibile e condiviso, partendo da un testo che nasce proprio dal confronto con la situazione di persone con disabilità. Riprenderò, pertanto, alcune considerazioni di questo documento per spiegare i termini “persone con disabilità”, a partire dal lavoro che è stato ripreso da tantissime organizzazioni, governi nazionali, istituzioni di ricerca, università.
Proviamo a decodificare questa espressione: innanzitutto partiamo dal riferimento al concetto di persona, ma questo credo sia parte del patrimonio di comprensione di tutti; “persona” rimandando al significato non etimologico, ma come è venuta definendosi nel tempo, come oggi è rappresentata nei principali dizionari di quasi tutte le lingue del mondo occidentale, cioè “persona” come espressione di essere umano, con riferimento all’essere umano, e che chiede, proprio in quanto persona, come tutte le altre persone, di essere riconosciuto nella propria dignità sacrale. Il termine “riconoscimento” è quello più diffuso nei testi chiave sulla disabilità, in particolare nella Convenzione ONU in cui ricorre 43 volte.
Esseri umani nella loro dimensione esistenziale comune, in quello che ci lega l’uno all’altro, che ci accomuna. Usando le parole di Simone Weil “Tutti gli esseri umani sono assolutamente identici nella misura in cui possono essere concepiti come un’esigenza centrale di bene, un’attesa di una vita buona attorno alla quale si dispone un po’ di materia psichica”.
Tutti gli esseri umani sono persone, indipendentemente dalle loro omissioni rilevabili nelle strutture e nelle funzioni del corpo, indipendentemente dalle loro limitazioni nelle attività, nella loro forma di partecipazione. Quindi persone di valore riconoscibili come tali. Questo è un punto centrale, indipendentemente dalle loro performance, da quello che sono in grado di fare, che possono fare. Sottolineo questo aspetto perché nel linguaggio spesso comune e anche in molti operatori c’è una malintesa rappresentazione dei contenuti della Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità e in genere dei significati del cosiddetto modello sociale di disabilità.
L’idea è che fondamentalmente vale la persona, ma nella misura in cui attraversa un mondo senza barriere, è in grado di esprimersi in condizioni di parità con gli altri. Il fatto è che, anche nella migliore delle circostanze, situazioni, anche se fossimo oggi capaci di utilizzare tutte le risorse possibili, noi non siamo in grado di compensare i gap, le difficoltà e le limitazioni di qualsiasi persona con disabilità; quindi molte persone con disabilità non sono in grado di esprimere in maniera pari ad altre persone senza disabilità, capacità, competenze, forme di partecipazione e nasce così il rischio che vengano considerate meno importanti di altre.
I mezzi di comunicazione di massa, i social enfatizzano ad esempio le grandi performance degli atleti paraolimpici; oppure quando si parla di persone nello spettro autistico colpiscono alcune capacità straordinarie che queste persone hanno. Ma parliamo di frazioni percentuali forse inferiori all’1% dell’intera popolazione con disabilità. Non dimentichiamoci degli gli altri, in quanto la possibilità di riconoscere pienamente i diritti delle persone con disabilità non sono legate al fatto che vengano espresse capacità eccezionali o eroiche, ma sono attraverso il riconoscimento di quella umanità, di cui parlava Simone Weil, che è propria di qualsiasi persona con disabilità. Altrimenti quello che succede è che di molte persone con disabilità non si racconta nulla, ce le dimentichiamo.
’Italia è piena di istituti, dove le persone sono trattate come scarti umani. Anche perché magari in alcuni casi soffrono anche di problematiche di salute mentale, e queste persone vengono recluse insieme ad operatori di scarsissima competenza, spesso non solo incapaci, ma anche negligenti. Tutti gli anni gli organi di comunicazione ci parlano di casi di questo, da nord a sud del paese troverete scandali nelle strutture, maltrattamenti, negligenza, abusi. Sono persone dimenticate. La sopravvalutazione delle performance rischia di oscurare la pari dignità delle persone e quindi noi dobbiamo assolutamente considerare invece l’umanità che passa attraverso le diversità che ciascuno ha.
Anche riflettendo sul fastidio che l’eccesso dell’uso della parola “inclusione” sta avendo in questo periodo, prima dell’inclusione sociale, le persone con disabilità hanno bisogno di essere incluse nella vita di altre persone.
Poi ci sarebbe molto da dire chiaramente sulle doppie discriminazioni: tra le persone con disabilità ci sono anche persone migranti, persone anziane che spesso fanno una fatica ancora maggiore a riconoscere questa piena realtà umana. Categorie che vengono spesso segnate da doppie linee di marginalità.
Ci siamo battuti perché si usi la definizione “persone con disabilità” perché quello che le associazioni di queste persone hanno voluto fortissimamente sottolineare negli ultimi 40 anni è che la disabilità non è una caratteristica anagrafica, come il colore degli occhi o il paese dove sei vissuto, ma è una condizione che si incontra nella propria traiettoria di vita. Ci capita. E l’impatto che ha nella nostra vita non è neanche totalmente legato alla natura della limitazione fisica, ma è legato alle condizioni ambientali in cui ci troviamo.
La disabilità non è un attributo personale, ma è una dimensione che certo attraversa il corpo della persona, ma mette in gioco le caratteristiche del contesto in cui le persone vivono. Molte volte invece viene usata la parola “disabile” o addirittura e si continua ad usare come sinonimo vecchie parole, ancora oggi presenti nel linguaggio comune, ad esempio handicappato, inabile o minorato. Quasi per stigmatizzare una dimensione specifica della persona, caratteristiche individuali; e quindi attraverso queste parole si rischiano di perpetuare atteggiamenti negativi o stereotipi.
Troppo spesso le parole che richiamano la disabilità come condizione di malattia, per cui tutte le persone con disabilità sono malate. Sono pazienti, oppure vengono descritte con una trasformazione linguistica della loro condizione di salute: autistico, dislessico, tetraplegico, ecc.
Qui non si tratta solo di una correttezza linguistica formale ma di esprimere in modo diverso quale la reale dignità delle persone. Anche il termine “vittima” o “soffre di…” La disabilità come malattia riprende una condizione in cui si dà per scontato che, appunto, la condizione di disabilità necessariamente produca una condizione di difficoltà. Certo, da una parte è vero, ma non esaurisce il significato di disabilità. Ma la distorsione può avvenire anche al contrario, quando si enfatizzano capacità straordinarie, resilienza; la realtà delle persone con disabilità non è quella di casi eroici o di performance eccezionali, ma è molto più ordinaria, molto più vicina a ciascuno di noi.
Ci sono alcune espressioni che hanno guadagnato molto spazio in questi anni. Una di queste, appunto, è quella di utilizzare parole che sembrerebbero addolcire la durezza di espressioni difficili. In particolare, una definizione che ha avuto molta diffusione è “diversamente abile”. Io ho capito tutta la presa per i fondelli di questa parola quando mia figlia, dieci anni fa, con un sorriso più sarcastico che ironico, ha cominciato a dirmi che ero “diversamente giovane”: un’espressione per nascondere la realtà quando viene considerata negativa, con l’utilizzo di eufemismi.
L’intenzione è buona, certo, ma il risultato è quello di ignorare che le persone con disabilità vivono delle situazioni difficili. Persona con disabilità può esprimere una certa durezza ma ci pone certe attenzioni sulle condizioni di vita di queste persone. Quest’ultima non è solo una condizione sociale, un fattore esterno, ma anche un elemento biografico personale importante, spesso drammatico che può essere però vissuto e superato con la relazione con persone vicine, attraverso rapporti positivi con gli altri, la comunità, i servizi e può essere trasformato in una condizione di vita umanamente sostenibile. E’ questa la condizione fondamentale che deve essere approfondita, non ignorare la complessità della situazione e ignorare tutti gli interrogativi che ci pone, prima di tutto come altre persone e poi nei diversi ruoli di responsabilità che abbiamo nella società.
Anche l’utilizzo di termini come “speciale o particolare” o “bisogni educativi speciali” non è molto adeguata, perché va ad enfatizzare una diversità che non ha senso di essere espressa.
Chiudo molto rapidamente dicendo che vi invito appunto a utilizzare l’espressione “persone con disabilità” nel linguaggio dei nostri scritti, nella comunicazione sociale, in tutte le forme attraverso cui noi vogliamo rappresentare storie o fatti, avvenimenti da comunicare agli altri.
Non so se sono riuscito a esprimermi bene, non per cercare di essere educati o politicamente corretti, ma perché attraverso questa espressione trasmettiamo coscientemente un modo di essere rispettoso della dignità e della complessità delle biografie delle persone con disabilità che siamo chiamati a portare alla luce o descrivere certe caratteristiche.
Utilizziamola quindi con questo spirito, come un modo per dimostrare che siamo consapevoli della complessità della condizione di disabilità, dei suoi legami complessi, dei contesti sociali e delle organizzazioni, oltre che, ovviamente degli eventi biografici specifici che interessano le persone. Ma possiamo anche qui aggiungere, citando Paolo Frega, di essere consapevoli del nostro micro-potere, cioè del fatto che attraverso questa comunicazione corretta noi possiamo aiutare, sia pure parzialmente, a liberare le persone dalle oppressioni di alcune pratiche sociali che generano pregiudizi, che creano sofferenza ulteriore e quindi allontanano ciascuna persona con disabilità da quel desiderio di una vita migliore che accomuna ciascuno di noi.