Ronald G. Sultana
Centro Euromediterraneo per la ricerca didattica
Università di Malta
Introduzione: situare il lavoro di sviluppo della carriera
In tutta Europa e in molti paesi nell mondo è stata posta una crescente enfasi politica sull’allineamento dell’istruzione formale alle “esigenze” del mercato del lavoro e sulla preparazione degli studenti al “mondo del lavoro” (Grubb & Lazerson, 2004; Kuhn & Sultana, 2006; Vally & Motala, 2014; Allais & Shalem, 2018). Mentre tali priorità e discorsi politici a livello globale sono mediati dal contesto locale, essi tuttavia modellano fortemente l’educazione ed esercitano un’influenza omogeneizzante (Mundy, Green, Lingard & Verger, 2017). La narrativa che viene spesso presentata – da governi nazionali, entità sovranazionali (come l’OCSE, l’Unione Europea e la Banca mondiale), influenti gruppi di riflessione e “imprenditori politici” – è che in un’economia basata sulla conoscenza i giovani, tanto quanto gli adulti, devono sviluppare una serie di “capacità di gestione della carriera” che li aiuteranno a destreggiarsi in transizioni complesse, non lineari e imprevedibili tra apprendimento e guadagno, dove i confini tradizionali tra le sfere dell’istruzione, della formazione, del lavoro e del tempo libero sono diventati sempre più sfuocati (Sultana, 2012a). Una parte importante, anche se in qualche modo contraddittoria, di tale narrativa è che in realtà non sappiamo molto di come sarà il “mondo reale del lavoro” in futuro e di quali abilità saranno necessarie, oltre alla disposizione e all’impegno di “apprendere come apprendere” in un processo permanente di auto-creazione in risposta ai continui cambiamenti determinati dall’innovazione tecnologica, tra cui l’automazione e l’intelligenza artificiale (Hooley, 2018).
Alcuni presentano un tale scenario come qualcosa di entusiasmante, che porterà l’umanità alla soglia di un “coraggioso mondo nuovo”. Altri invece esprimono gravi preoccupazioni per la capacità degli istituti di istruzione formale, e in particolare delle scuole – i cui curricula formali e informali si rifanno alla mentalità fordista che li ha modellati, così coma ha formato i sistemi di produzione di massa – per preparare la prossima generazione a quello che verrà. Sia le speranze che le paure hanno portato nella loro scia gli sforzi di riforma su larga scala, tra cui quella che Sharma (2016) chiama la “STEM-ificazione” dei curricula. Si tratta di argomenti orientati alla scienza, si sostiene, che forniranno le conoscenze e le competenze su cui possono essere sviluppate tecnologie innovative, e che quindi daranno ai paesi e alle regioni un vantaggio competitivo rispetto ad altri. Le scuole hanno anche il compito di rafforzare ulteriormente questo nucleo curriculare con “abilità e capacità del 21° secolo” – come per esempio atteggiamenti e competenze imprenditoriali, alfabetizzazione digitale, pensiero innovativo e critico, abilità comunicative e apprendimento autoregolato – tutto cose che renderanno la prossima generazione pronta per il lavoro e “occupabile” nella nuova economia (Kuratko, 2005; Griffin, McGraw & Care, 2012; van de Oudeweetering & Voogt, 2018; Hooley, 2019).
Vantaggi di un apprendimento sul lavoro
È facile vedere come, in questa narrativa, la questione di come fornire delle abilità di gestione della carriera e un orientamento professionale agli studenti sia destinata a guadagnare forza, poiché ciò offre la promessa di aiutare i giovani ad affrontare le vicissitudini della vita, indirizzarli verso flussi curricolari pertinenti , e incoraggiare ad un costante impegno rispetto a un’ulteriore istruzione e formazione, migliorando così il “patrimonio umano” delle competenze richieste, e sviluppare orientamenti particolari e collegamenti con il mercato del lavoro. Poiché l’esperienza di un non corretto abbinamento può essere dannosa in molti modi per l’economia e per i singoli (Kalleberg, 2007), si può affermare che un lavoro di sviluppo della carriera con i cittadini ha maggiori probabilità di portare a una vita più felice e quindi a una forza lavoro più produttiva e a un minore spreco di fondi pubblici per via del ricambio lavorativo . Gli studenti che scelgono saggiamente i loro percorsi di istruzione e formazione e che sviluppano un progetto di vita hanno meno probabilità di cambiare corso o di abbandonare il loro progetto, e hanno maggiori probabilità di impegnarsi maggiormente nell’apprendimento, rimanere motivati e raggiungere risultati più elevati. Prove basate sulla ricerca che confermano i benefici economici ed educativi del lavoro di orientamento professionale (tra l’altro Killeen & Kidd, 1991; Hughes et al., 2002; Bowes, Smith & Morgan, 2005; Hooley & Dodd, 2015), e che quindi questo sia tanto un bene privato quanto pubblico, hanno portato a un notevole rilancio dell’interesse politico per l’educazione e l’orientamento professionale (CEG). Lo stesso vale per le preoccupazioni nazionali e regionali relative alla performatività economica, che portano a riesami internazionali dei servizi che coprono oltre 55 paesi sia nel nord che nel sud del mondo (Watts, 2014).
Gran parte del lavoro di orientamento implica l’aiutare gli studenti a pensare al mondo del lavoro, alla loro attuale comprensione di esso e alla loro futura relazione con esso. L’educazione al lavoro generalmente mira a rendere gli studenti più consapevoli di se stessi e dell’ambiente lavorativo e a sviluppare una gamma di abilità meta-cognitive, che li aiutano a fare scelte, piani e decisioni legati alla loro vita. Nel migliore dei casi, tale apprendimento e orientamento legati al lavoro incoraggiano gli studenti a prendere coscienza dell’influenza di fattori come il background sociale, il genere e l’etnia nella limitazione della loro “capacità di aspirare” (Appadurai, 2004). Ciò può portare a una maggiore comprensione del modo in cui gli “orizzonti d’azione” (Hodkinson, Sparkes & Hodkinson, 1996) sono stati socialmente ristretti e limitati, aumentando così la probabilità che le “preferenze adattative” (Nussbaum, 2001) siano debitamente messe alla prova. In questi e altri modi, quindi, il lavoro relativo alla carriera può anche affermare di far avanzare l’agenda della giustizia sociale (Sultana, 2014; Hooley, Sultana & Thomsen, 2018a, 2018b).
Sviluppi internazionali nei programmi di apprendimento del lavoro
L’interesse internazionale rispetto ai potenziali benefici del CEG ha portato diversi paesi a prendere iniziative per ampliare l’accesso ai servizi, tra l’altro, incorporando l’apprendimento professionale in maniera più formale nei curricula, dai livelli primari (ad esempio Magnuson, 2000; Welde et al., 2016) fino a quelli di istruzione superiore (ad es. Foskett & Johnston, 2006; Frigerio, Mendez & McCash, 2012; Rott, 2015; Collins & Barnes, 2017). Le iniziative sia a livello di istruzione obbligatoria che superiore hanno incluso l’introduzione o il rafforzamento dell’insegnamento correlato al lavoro nel curriculum, garantendo che le aree di conoscenza consolidate si colleghino alle problematiche legate al lavoro e alle abilità di gestione della carriera (ad esempio insegnando valide tecniche di colloquio di lavoro nelle lezioni di arti creative; scrivere una lettera per la richiesta di un lavoro o un curriculum in una classe linguistica), attraverso la promozione di abilità imprenditoriali grazie alla costituzione di aziende o cooperative simulate sotto il tutoraggio di esperte guide aziendali (come il Young Enterprise Scheme), attraverso l’organizzazione di affiancamenti lavorativi e inquadramenti professionali e così via.
Si è prestata attenzione alle domande relative al “cosa” e al “come” dell’apprendimento professionale: vale a dire che cosa dovrebbe includere un quadro curricolare di formazione professionale (ad es. Hooley et al., 2013; Thomsen, 2014; Education Scotland, 2015) e come meglio insegnare e valutare le capacità di gestione professionale (ad es. Law, 1999; Sultana, 2013). I curricula di apprendimento professionale possono presentare vari gradi di sofisticazione in relazione a logica, contenuto, teorie dell’apprendimento e approcci pedagogici e di valutazione, ma alla fine la loro preoccupazione principale sembra essere quella di reiterare gli obiettivi di auto-sviluppo, esplorazione e gestione professionale, come spiegato nel modello DOTS (Law & Watts, 1977; Law, 1999). A questo proposito sono stati pubblicati importanti testi (ad esempio Barnes, Bassot & Chant, 2011; McCowan, McKenzie & Shah, 2017), nonché manuali, materiale digitale e basato sul Web, e una pletora di risorse, tra cui linee guida su come i servizi CEG nelle scuole possano essere migliorati (Gatsby Charitable Foundation, 2014; NCGE, 2017; Sultana, 2018a; Hooley & Andrews, 2018).
Le recensioni internazionali citate in precedenza hanno anche notato che, in molti contesti, l’educazione al lavoro di tipo scolastico ha subito un’evoluzione, passando dall’essere un intervento una tantum, mirato principalmente a uno o più punti chiave di transizione, ad avere una portata più evolutiva; dall’essere rivolta agli adolescenti, all’apprezzamento del fatto che si dovrebbe iniziare a porre delle basi ancor prima, almeno con i bambini più grandi delle scuole primarie; dal rivolgersi ai singoli individui, specialmente quelli che hanno difficoltà, a offrire un programma più universale nel suo orientamento, coinvolgendo intere classi e gruppi di coetanei; e passare dalla focalizzazione sull’informazione professionale e sull’orientamento scolastico, a una ricerca dell’educazione alla vita lavorativa e alla cittadinanza in modo più olistico e critico (Simon, Dippo & Schenke, 1991; Pouyaud & Guichard, 2018; Irving, 2018; Midttun & McCash, 2018).
Tutta questa “frenesia” sull’istruzione e l’orientamento professionale – che ha visto la creazione di reti transnazionali incentrate sulla politica (ad esempio la rete europea di orientamento permanente; il Centro internazionale per lo sviluppo della carriera e le politiche pubbliche; CareersNet del CEDEFOP) e la formazione dei professionisti (ad es. la Rete per l’innovazione nell’orientamento professionale e consulenza in Europa) – è sia significativa che rivelatrice. I resoconti descrittivi di queste iniziative abbondano, e vengono spesso presentati per illustrare “esempi di buona pratica”, esse tendono ad essere molto apprezzate dai professionisti per la loro concretezza, i benefici promissori per gli studenti e una relazione diretta con l’azione. Tuttavia, non dovrebbero sostituire lo studio analitico e di valutazione, che esamina attentamente le più ampie relazioni contestuali, ed è a una considerazione di questo che adesso ci rivolgiamo.
Qual è il problema a cui l’apprendimento professionale è una risposta?
Un modo efficace di vedere i legami tra le iniziative e le tendenze politiche e la matrice più ampia delle relazioni di potere, compresa la complessa interazione tra locale e globale, è quello di chiedere: qual è il problema a cui una politica specifica o un insieme di aggregazioni politiche, offre una risposta? Come la tradizione dell’analisi delle politiche critiche ci ricorda, chiedersi come venga rappresentato il “problema” e in che modo tali rappresentazioni influiscano sul tipo di politiche e pratiche sviluppate, può aiutarci a evitare di rimanere intrappolati nelle ipotesi di un campo particolare, di un contesto politico, o di una pratica che vengono studiati (Simons, Olssen & Peters, 2009; Bacchi, 2009).
Porre questo tipo di domande è particolarmente importante nel caso dell’educazione e dell’orientamento professionale poiché la sua attrazione per i decisori politici è anche ideologica, nel senso che fornisce una narrativa che serve a mascherare il fallimento del sistema o ad attribuire la causa del fallimento alla porta sbagliata. In un contesto in cui la presunta “cura” della recessione economica – maggiori investimenti nell’istruzione e nella formazione – sta producendo rendimenti decrescenti sia per i giovani che per gli adulti (Collins, 2000; Tomlinson, 2008; Brown, Lauder & Ashton, 2010), il CEG può servire rafforzare l’agenda neoliberista di “responsabilizzazione” (Hooley, Sultana & Thomsen, 2018b), in base alla quale i problemi strutturali e sistemici, come la disoccupazione e la sottoccupazione dei laureati sono rappresentati come problemi di singoli individui, che sono i soli colpevoli della loro sventura (Savelsberg, 2010 ). Se solo avessero avuto migliori capacità di gestione professionale, se solo avessero fatto scelte educative e professionali migliori, se solo avessero modificato il loro curriculum vitæ, le loro maniere, e persino il loro aspetto (Yates, Hooley & Kaur Bagri, 2016) – allora avrebbero ottenuto il lavoro. In questo discorso, quindi, il CEG promuove l’idea che l’individuo sia un imprenditore di sé stesso (Peters, 2016; Irving, 2018), coinvolto in un processo di “life design” (Savickas et al., 2009), con l’apprendimento professionale che si ritaglia un suo ruolo sia nelle scuole che nei servizi di collocamento pubblici e privati.
In molti paesi, abbondano le narrative sul deficit che patologizzano sia l’educazione formale che i giovani, con la prima presentata come una serie di istituzioni obsolete che non rispondono ai “bisogni” dell’industria e i secondi come “carenti” a livello di carattere, competenza e impegno, e quindi da incolpare per le loro transizioni prolungate e la loro emarginazione rispetto al mercato del lavoro (Brunila, 2013). Con il problema definito in questo modo, l’educazione e l’orientamento professionale tendono ad adottare una razionalità “tecnocratica” (Sultana, 2018b), con i professionisti che vedono il loro ruolo in gran parte in termini di un rafforzamento dei legami tra scuola e lavoro (Watts, 1985), di un aiuto agli studenti per lo sviluppo quelle qualità che si presume siano carenti, rendendoli così più attraenti ai datori di lavoro. Se, d’altra parte, il problema delle transizioni difficili, ritardate e troncate sta nel modo in cui l’economia è organizzata e in ciò a cui essa dà maggior valore, allora l’istruzione e l’orientamento professionale hanno maggiori probabilità di assumere un ruolo diverso, “emancipatore” – che contribuisce all’iniziativa educativa complessiva di aiutare gli studenti a dare un senso al mondo in cui vivono, incluso il mondo del lavoro. Ciò significherebbe aiutarli a capire come, nonostante la società abbia permesso allo Stato di confinarli tra le quattro mura della scuola istituzionalizzata obbligatoria o quasi obbligatoria durante i migliori anni della loro vita – in linea di principio come una preparazione per una vita indipendente e produttiva – la società non riesca a offrire a così tanti di loro un accesso a un’esistenza dignitosa.
La tesi di questo mio lavoro è che l’educazione al lavoro di quest’ultimo tipo – cioè una forma di educazione autentica che aiuti gli studenti a decodificare ciò che sta accadendo intorno a loro, dotandoli delle conoscenze, delle abilità e delle inclinazioni per aspirare, e contribuire a realizzare, un mondo in cui tutti possono prosperare e raggiungere il benessere – èqualcosa di importante, possibile e necessario. Nelle sezioni che seguono illustrerò innanzitutto il motivo per cui ritengo importante che il mondo del lavoro abbia un ruolo di spicco nei curricula di studio e formazione. Argomenterò poi a favore dell’educazione al lavoro critico, che è necessaria se il “prosperare” e il “benessere” di tutti fossero davvero l’obiettivo e la raison d’être dei nostri sforzi educativi.
Istruzione e mondo del lavoro
L’argomentazione secondo cui i curricula scolastici dovrebbero dare importanza al mondo del lavoro è, per molti versi, facile da fare: il lavoro rimane centrale per la prosperità umana, e provvede a bisogni umani come quelli di un’esperienza condivisa, un’esperienza strutturata di tempo, un senso di scopo collettivo, status e identità, oltre che al sostentamento (Veltman, 2016).
Se il lavoro è così centrale per la prosperità umana, dovrebbe essere ovvio, come la notte segue il giorno, che un’educazione fondata sull’obiettivo di promuovere e facilitare tale prosperità preparerà tutti i suoi studenti per questo, in modo che essi possano godere dei benefici che ne derivano tanto quanto sarà possibile. Ma qui vi sono almeno due problemi principali: in primo luogo, la natura del lavoro nel mondo contemporaneo; secondo, la natura del lavoro nel mondo a venire. Il primo suggerisce che il lavoro è tutt’altro che significativo per vaste fasce della popolazione; il secondo prevede che l’automazione e l’intelligenza artificiale (AI) renderanno obsoleto il lavoro umano. Entrambi hanno importanti implicazioni per il nostro approccio all’educazione al lavoro, come vedremo tra poco.
Il lato oscuro del lavoro
Quando Veltman (2016) celebra l’importanza del lavoro nella vita delle persone, sta ovviamente parlando di un lavoro significativo. L’autrice per gran parte del suo libro riscontra che per molti il lavoro è lungi dall’essere significativo o appagante, e in effetti sostiene che, data la complessa divisione del lavoro nelle società contemporanee, è tragicamente impossibile che un lavoro significativo che supporta la prosperità umana sia disponibile a tutte le persone, anche quando il lavoro che svolgono è socialmente necessario. Ciò comunque non sminuisce la sua affermazione che il lavoro è comunque centrale nella nostra vita di esseri umani, nella misura in cui la maggior parte delle nostre esperienze di sfruttamento possono essere ricondotte ad essa, sia sotto forma di compensazione ingiusta, mancanza di rispetto o appropriazione altrui dei risultati delle proprie energie e dei propri sforzi a beneficio sproporzionato di coloro che già godono di livelli più alti di potere, status e ricchezza.
Il compito di descrivere il mondo del lavoro contemporaneo è impegnativo, dato che la propria esperienza di lavoro varia notevolmente a seconda di ciò che si fa e di dove. Tuttavia, se dovessimo descriverlo a grandi linee, saremmo giustificati nel sostenere che il lavoro nel 21 ° secolo è, per molti, un tormento: uno studio Gallup condotto nel 2013 e che ha coinvolto 230.000 lavoratori di 142 paesi a tempo pieno e part-time riferisce che solo il 13% delle persone si sente coinvolto e soddisfatto dal proprio lavoro. Le relazioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro (1999, 2016), che presentano accurati ritratti dell’esperienza di lavoro nel nord e nel sud del mondo, fanno eco a tale conclusione pessimistica. I dati dell’ILO sul “lavoro dignitoso” in tutto il mondo sono sempre più negativi per un numero sempre maggiore di persone, sulla base dei quattro indicatori di occupazione, protezione sociale, diritti dei lavoratori e dialogo sociale, che portano a una disillusione a livello mondiale derivante dall’esperienza lavorativa delle persone, che si tratti di esclusione dal mercato del lavoro, cattive condizioni di lavoro, bassi salari, esposizione a vulnerabilità e insicurezza e qualità del lavoro (Ryder, 2017).
Numerosi autori hanno riflettuto sulla natura del lavoro sotto il dominio del neoliberismo, fornendo ulteriori prove empiriche che danno sostanza a una cupa rappresentazione del lavoro in epoca contemporanea; un lavoro che è caratterizzato da insicurezza, precarietà, intensificazione, deskilling, contratti temporanei o a zero ore e sorveglianza intrusiva (inter alia vedi Sennett, 1998; Procoli, 2004; Cederström & Fleming, 2012; Frayne, 2015; Fleming, 2015). Tutti questi autori, e molti altri ancora, rafforzano il punto sollevato da una lunga serie di critici del capitalismo, a partire da Marx e arrivare fino a Gorz, e più recentemente Standing (2011), il quale, nel discutere il “precariato”, distingue il ‘lavoro’ “(che secondo lui comprende le attività di necessità, sopravvivenza e riproduzione oltre allo sviluppo personale) dal ‘lavoro alienato’ (la cui funzione è quella di produrre output o servizi commerciabili, in cui coloro che lo controllano spesso opprimono e sfruttano quelli che lo eseguono) . Questa distinzione è stata oscurata dalla santificazione dell’occupazione retribuita negli ultimi due secoli, addirittura con forze progressiste che hanno accettato l’idea che un “lavoro” porti “dignità”, “status” e un senso di appartenenza alla società (Standing, 2018) .
Autentica formazione professionale
Ci troviamo quindi di fronte al fatto che, per molti, ciò che passa per lavoro favorisce a malapena la prosperità umana. Inoltre, non è nemmeno chiaro se anche questo tipo di lavoro, per quanto insoddisfacente, sarà ancora disponibile nel prossimo futuro, per via dei progressi della robotica e dell’intelligenza artificiale. Se, come avrebbero desiderato gli ottimisti, siamo alla soglie di una nuova era d’oro del tempo libero (Kleiber, 2012), o se stiamo invece dirigendoci verso un abisso sempre più profondo tra un’élite tecnologica e il resto del mondo, nessuno può ancora saperlo. Un articolo della MIT Technology Review che riassumeva le previsioni espresse da esperti mondiali in economia e tecnologia ha concluso che veramente “non abbiamo idea di quanti posti di lavoro andranno effettivamente persi nella marcia del progresso tecnologico” (Winick, 2018).
Nulla di tutto ciò, tuttavia, rende l’educazione al lavoro irrilevante. Semmai, con così tanto in gioco in termini di accesso a vite prospere e significative, è ragionevole affermare che tutti gli studenti hanno diritto a un programma di educazione al lavoro autentico e onesto che li aiuti a riconoscere e comprendere il modo in cui il lavoro è modellato ora, e come potrebbe essere plasmato in futuro. La domanda che ora dobbiamo porci è: è questo che stanno ricevendo gli studenti? E altrimenti, che aspetto potrebbe avere un’educazione al lavoro onesta e autentica? Ciò porta ad altre domande di tipo esistenziale, come per esempio: cosa significa essere umani? Cosa significa vivere una “buona vita”? In che modo il lavoro – definito come l’attività umana per eccellenza che trasforma la natura, incluso il proprio senso di sé – può tradursi in atti creativi che nutrano bisogni sia materiali che non materiali, incluso il senso di sé nei confronti degli altri e del mondo? Che tipo di accordi sociali potrebbero / dovrebbero essere messi in atto in modo che tutti possano condurre una vita dignitosa, libera dal controllo e dallo sfruttamento? Diversi storici dell’educazione hanno documentato fino a che punto sia stata data importanza a questo tipo di domande, o se piuttosto siano state eclissate da preoccupazioni più utilitaristiche legate al “guadagnarsi da vivere”. Non sorprende il fatto di trovare qui un modello ricorrente: le recessioni economiche hanno teso a emarginare il tipo di visioni educative che una lunga serie di teorici dell’educazione – da Socrate a Dewey e Freire – ha alimentato (Carnoy e Levin, 1985), proponendo invece un utilitarismo preoccupante che subordinava l’educazione agli imperativi economici.
Come ho notato nei miei articoli sull’istruzione professionale e sui programmi di orientamento in molte parti del mondo, vi è una chiara tendenza a incoraggiare gli studenti ad adattarsi e “alimentare” il mondo del lavoro così com’è, piuttosto che metterlo in discussione alla luce di alternative già esistenti e possibili (Sultana, 2012a, b). Come ci hanno dimostrato decenni di borse di studio in sociologia dell’educazione, questa è un’impresa in cui l’intera impresa educativa formale collude (Watts, 1985): le scuole insegnano abilità specifiche (ad esempio la competenza professionale e digitale, l’alfabetizzazione e la matematica) e competenze generiche (ad es. le “competenze trasversali”) funzionali all’economia; investono una grande quantità di risorse nella selezione, scelta e qualificazione delle persone, organizzando così la distribuzione di “mani” e “menti” attraverso l’intera gamma di posti disponibili, mentre allo stesso tempo legittimano tale distribuzione; insegnano il “lavoro” attraverso un curriculum formale, ancora di più grazie al modo di vivere che le scuole inculcano attraverso il loro ethos, le loro routines, i loro rituali, e le loro culture istituzionali e pedagogiche. Le scuole infondono così abitudini come la disciplina del tempo, normalizzano la nozione di autorità, promuovono la propensione a posticipare la gratificazione, esigono l’accettazione di un regime disciplinare che subordina i movimenti del corpo e i bisogni fisici alle esigenze esterne, si aspettano che gli studenti facciano sforzi per ottenere premi estrinseci (come i voti) piuttosto che quelli intrinseci (come il piacere nel fare qualcosa), insegnano loro a considerare naturale la distinzione socialmente e storicamente costruita tra il i”lavoro” (che è impegnativo, spesso noioso, e richiede uno sforzo disciplinato, e che è affine al “lavoro forzato” e alla “fatica”) e il “gioco / tempo libero” (che si riferisce all’espressione di sé, alla libertà e al divertimento – un’opportunità per “ricrearsi”) (Apple, 1995).
In tutti questi modi, le istituzioni didattiche comunicano con forza alle generazioni più giovani delle nozioni egemoniche su come vivere nel mondo. Gli educatori devono affrontare una situazione difficile: dovrebbero insegnare per il lavoro, incoraggiando gli studenti ad adattarsi al “nuovo spirito del capitalismo” (Boltanski e Ciapello, 2007) in modo da avere maggiori possibilità di assicurarsi mezzi di sussistenza non sicuri in un mondo liquido (Bauman, 2006); o dovrebbero invece insegnare sul lavoro (e contro il lavoro), aiutando gli studenti a sviluppare gli strumenti di pensiero e di attivismo per mettere in questione il modo in cui il mercato del lavoro neoliberista sta deludendo i cittadini? O forse gli educatori dovrebbero fare entrambe le cose, nel tentativo di trascendere ciò che Prilleltensky & Stead (2012) chiamano il dilemma “adattamento/sfida”.
Questo dilemma è debitamente riconosciuto. Coloro che insegnano sul lavoro – tanto quanto qualsiasi altro educatore – agiscono in loco parentis, cioè prendono seriamente in considerazione il noto detto di Dewey che afferma che “Ciò che i genitori migliori e più saggi vogliono per il proprio figlio, deve essere ciò che la comunità vuole per tutti i suoi figli. Qualsiasi altro ideale per le nostre scuole è ristretto e sgradevole; se messo in atto, distrugge la nostra democrazia” (1907, p.19). La maggior parte dei genitori – anche quelli più critici dello status quo – vorrebbero comunque che i propri figli avessero accesso a mezzi di sussistenza, anche se ciò comporta un compromesso temporaneo rispetto agli ideali politici e ideologici.
Un’educazione autentica tuttavia non può semplicemente concentrarsi sull’aiutare gli studenti ad “adattarsi”. Mentre non ci si può aspettare che gli educatori risolvano i problemi sistemici, la risposta non è quella di un ritiro rassegnato dalla politica, dal momento che questo di per sé sarebbe un atto politico, e alla fine sarebbe una collusione con il prevalente stato delle cose. Piuttosto, come educatori, siamo chiamati ad affrontare le tensioni e le contraddizioni che sorgono necessariamente nel campo “disordinato” della pratica, in cui il pragmatismo e il realismo devono rispondere agli imperativi morali ed etici dell’educazione. Mentre il dilemma tra “adattamento/sfida” non può essere prontamente risolto, i professionisti coraggiosi devono sopportare il disagio produttivo del lavorare nel campo di forza tra tali due scelte. È rimanendo aperti alle richieste apparentemente contraddittorie rappresentate dal dilemma tra adattamento/sfida che si possono generare nuove intuizioni sull’azione emancipatoria, evitando la duplice tentazione dell’idealismo da una parte e del pessimismo dall’altra.
Questo ci porta a una serie di riflessioni finali in questa lectio magistralis, in risposta alla domanda: “Che cosa implica quindi un’autentica educazione al lavoro in una democrazia?” Le seguenti deliberazioni hanno lo scopo di aprire conversazioni critiche, piuttosto che servire come progetto per una qualche forma o modalità.
Dal senso comune al buon senso
Un primo punto da sottolineare è che è fondamentale che un’autentica educazione al lavoro esamini le ipotesi di buonsenso su cui si basa e le forze storiche che le hanno originate. L’attuale “lingua planetaria”, che utilizza una serie di “espressioni da ascensore” come “educazione permanente” e “orientamento permanente”, serve a identificare ciò che è (e ciò che non è) un “problema”, creando modi di parlare al riguardo e offrendo “soluzioni” (Simons, Olssen & Peters, 2009, p.46). Essa evoca l’immagine di un mondo economico soggetto a forze di cambiamento costanti, rapide e in definitiva “inevitabili”, davanti alle quali gli individui non hanno altra scelta che adattarsi se vogliono sopravvivere – e farlo per tutta la loro vita. All’interno di questo discorso, i flussi dinamici di capitale in tutto il mondo, che contribuiscono a instabilità sempre più difficili da gestire a livello di stato nazionale (Bauman, 2017), tendono a essere reificati, cioè spesso considerati come un “dato di fatto” non aperto alla discussione, e a cui non esista una valida alternativa. L’implicazione di ciò è che devono essere i singoli individui ad adattare il loro modo di essere nel mondo (Bengtsson, 2011, 2015), e il CEG è uno dei servizi che supporta tali adattamenti, fornendo informazioni, consulenza e orientamento dove e quando necessario, per tutta la vita. È nella natura dell’ideologia totalizzante persuadere che l’ordine prevalente sia naturale, normale, evidente, universale e che funzioni nell’interesse di tutti – mentre al contrario esso confonde, esclude e denigra le alternative (Eagleton, 1991). È ugualmente nella natura di un’educazione autentica rivelare il mascheramento che ha luogo rispetto ai conflitti sociali, in cui uno stato di cose che opera nell’interesse dei potenti viene presentato da questi ultimi come se soddisfacesse gli interessi di tutti.
Un modo per aiutare gli studenti a diventare consapevoli della natura contingente della loro comprensione del mondo del lavoro è quello di sviluppare un’immaginazione storica. Un autentico programma educativo che ha come obiettivo il mondo del lavoro aiuterebbe gli studenti a capire come il lavoro è diventato quello che è, le speranze e i sogni per una vita dignitosa e decente che a volte sono fioriti e talvolta sono stati devastati, gli interessi che sono in gioco, chi guadagnerà e chi perderà nel modellare i luoghi di lavoro in modi particolari, e cosa si possa fare per ottenere una qualche misura di controllo collettivo su tali forze e dinamiche. Ciò aiuterà gli studenti a ricordarsi di lotte passate in cui gruppi subordinati hanno rivendicato una grande quantità di diritti sul lavoro che, lungi dall’essere completi, hanno comunque portato a sostanziali differenze nella capacità da parte della maggioranza di vivere in maniera dignitosa, se non addirittura prospera.
Ci sono alternative – un altro mondo è possibile
Un altro modo per aiutare gli studenti a diventare consapevoli della natura contingente della loro comprensione del mondo del lavoro è quello di sviluppare un’immaginazione antropologica / comparativa. In altre parole, un autentico programma di educazione al lavoro incoraggerebbe anche gli studenti a capire che, come ci ricorda l’accorato appello del World Social Forum, un altro mondo è possibile (Smith, 2004); lo farebbe dando testimonianza della miriade di entusiasmanti movimenti di base che sono sorti a livello locale e globale per sfidare il “lavoro morto” [dead labour] e mettere in atto un lavoro significativo. In tal modo, gli educatori del lavoro critico fornirebbero agli studenti gli strumenti intellettuali e la determinazione morale non solo per mettere in discussione il presente, ma anche per immaginare modi più socialmente giusti di convivenza, fornendo loro esempi di come tali aspirazioni non siano né idealistiche né distopiche . Queste “nuove economie” costituiscono un ampio insieme di idee e pratiche che condividono una critica comune del pensiero economico tradizionale, che spaziano ideologicamente dalle “lotte difensive” (Dinerstein, 2014) che cercano di modificare e umanizzare il capitalismo, ad approcci che offrono alternative al mercato, e si prefiggono di prefigurare una società post-capitalista migliore nella convinzione che la prosperità personale sia davvero possibile solo all’interno delle norme e delle istituzioni della vita civile. Tali economie contestano quindi quei canoni neoliberali che “si focalizzano sulla crescita come obiettivo economico, sulla fiducia nei mercati come meccanismi distributivi efficienti e sul ruolo del governo e delle banche nazionali nell’emissione di moneta e credito” (Avelino et al., 2015, p.5 ). Tuttavia, esse non solo contestano, ma attingono anche a valori integrati, pratiche di cooperazione, aiuto reciproco, reciprocità e generosità, al fine di costruire economie diverse, ecologicamente solide e direttamente democratiche (Avelino et al., 2015).
Queste non sono iniziative strane, irripetibili o effimere: la pletora di concetti e termini in circolazione dimostra la pura vitalità della ricerca di un significato e di modi alternativi di organizzare la produzione e il consumo e la convivenza – con espressioni come “verde”, “comunale”, “comunità “, “collaborativo”, “condivisione”, “inclusivo”, “solidarietà”, “informale”, “sociale”, “impatto sociale”, “imprenditoria sociale”, “core” ed “economie basate su beni comuni”. Stiamo quindi parlando, grazie ai movimenti anti-globalizzazione, di un’ondata di risposte locali ma sempre più collegate a livello transnazionale, rispetto all’imposizione di ristrutturazioni guidate dal mercato (vedi Sousa Santos, 2006), che rappresentano ciò che Dinerstein (2014) chiama ‘movimenti di speranza ‘. Questi sforzi mettono in atto “territori di speranza” che “articolano una più ampia concettualizzazione del lavoro, come lavoro dignitoso che si allontana dalla tradizionale divisione tra ‘work e labour’, e si impegna piuttosto nella possibilità di concepire il lavoro come un’attività sociale più ampia tramite una molteplicità di soggetti” (Dinerstein, 2014, p. 1049). Essi offrono quindi “forme alternative di socialità, relazioni sociali e solidarietà, pratiche di cura, processi di apprendimento e orizzonti di emancipazione” (Dinerstein, 2014, p. 1050).
Eppure ben pochi o quasi nessun programma di formazione professionale in circolazione fa riferimento a tali esperimenti sociali ed economici. Ben pochi discutono su quelle che, secondo Piketty (2014), si potrebbero chiamare “utopie pragmatiche” – come la settimana [lavorativa] di quattro giorni, la flessicurezza, il reddito di base universale e un’imposta globale sulla ricchezza – tutte cose che richiedono un sostegno di base sociale [grassroots] per la tassazione progressiva e per la socializzazione del profitto in un mondo in cui, entro il 2030, l’1% più ricco del mondo possiederà i due terzi della ricchezza globale (Frisby, 2018).
Meno persone ancora discutono degli esperimenti, di portata persino maggiore, di “economia della solidarietà”, che rappresentano alternative sia al capitalismo che alle economie pianificate, dove ciò che conta sono i “valori della vita” piuttosto che i “valori del profitto” (Miller, 2005) e che quindi ancor più profondamente turbano, sfidano e generano alternative ai tipi di identità, stili di vita e modalità politiche e istituzionali che sono ormai diventate egemonici.
Non facciamo gli “utopisti” – riferendoci al significato in greco di utopia come un “non-luogo”. Piuttosto, ci riferiamo alle “utopie reali” – come Olin Wright (2010) le definisce in una serie di progetti editoriali che misurano il valore, i processi e gli effetti di progetti e assemblaggi economici, politici e culturali di tipo sostanziale e radicale. Un’educazione autentica ispirata da un impulso emancipatore renderebbe gli studenti consapevoli di come le persone reali in situazioni reali stiano mobilitando una serie di metodi di base sociale e collettivi per organizzare l’attività economica in modi che non siano dominati dal profitto, dallo sfruttamento e dal danno ecologico. Tali esempi di “utopie pragmatiche” e “territori di speranza” includono, tra gli altri:
– Le cooperative Mondragon nella regione basca della Spagna, che ci ricordano che l’efficienza e la creazione (e la socializzazione) del profitto non si escludono a vicenda, in contesti in cui la democrazia economica e non solo civica viene valutata grazie alla partecipazione dei lavoratori alla proprietà e alla gestione (Johnson, 2017).
– Il movimento argentino dei disoccupati (Movimento de Trabajadores Desocupados, MTD – noto anche come movimento Piquetero), che ha intrapreso azioni collettive e ha implementato forme di lavoro cooperativo e attività sociali nei quartieri che includevano cooperative residenziali, formazione e istruzione, e progetti ambientali, che servivano tutti a “generare lavoro ‘genuino’ e ‘dignitoso’, e pratiche democratiche e di solidarietà, in collaborazione con altri movimenti popolari, organizzazioni sociali, sindacati locali e piccole imprese”(Dinerstein, 2014, p. 1043).
– Il Movimento Sin Terra (MST) che, negli ultimi tre decenni, ha mobilitato un movimento di riforma agraria che ha coinvolto centinaia di migliaia di contadini senza terra che occupano grandi proprietà terriere improduttive e che fanno pressioni sul governo per ridistribuire questi terreni a famiglie senza terra, consentendo loro di coltivare collettivamente la propria terreno tramite cooperative, nel contesto di un’economia di solidarietà (Wright & Wolford 2003).
– La città di Porto Alegre, in Brasile, che ormai da decenni promuove la governance partecipativa e la democrazia diretta, assegnando quote considerevoli della sua ricchezza ai cittadini, che decidono come e dove possa essere utilizzata sulla base di discussioni all’interno delle comunità e dei quartieri locali (Baiocchi, 2005).
Tutti questi esperimenti sociali ed economici contestano il dato neoliberista, che vede il bene comune come il risultato involontario della ricerca individuale di un interesse privato (Zamagni, 2014, p.193). Al contrario, questi movimenti fanno riferimento a un mondo in cui i valori economici sono inseparabili dai valori sociali, e in cui le relazioni economiche e l’attività umana a cui ci riferiamo col termine “lavoro” sono inquadrate in un contesto etico, in cui l’etica riguarda il modo in cui i valori sono inevitabilmente intrecciati alle relazioni sociali (Davis & Dolfsma, 2008). È in un tale contesto che il “lavoro” – anche quello modesto – può raggiungere una sua significatività. Ed è aprendo le prospettive del possibile che l’educazione al lavoro può alterare l’effetto paralizzante di quei programmi che vorrebbero che gli studenti acconsentissero e “si adattassero” a ciò che non è adatto agli umani.
Lo stimolo delle facoltà critiche nei confronti del mondo del lavoro, nello spianare la strada alla ricerca e all’immaginazione di alternative, richiede qualcosa di più della conoscenza storica o antropologica: il gusto per ciò che potrebbe e ciò che dovrebbe essere è molto più fortemente alimentato dall’esperienza. Questa intuizione è al centro di un apprendimento profondo e di una visione dell’educazione che, nelle parole di Dewey “non è una preparazione per la vita; è la vita stessa” (1916, p.239). Un’autentica educazione al lavoro richiederebbe quindi più di una semplice revisione radicale del curriculum di “competenze di gestione professionale”. Piuttosto, come nelle scuole di laboratorio di Dewey, si prefiggerebbe anche l’obiettivo che gli studenti si impegnino in compiti e relazioni di lavoro significativo che bilancino “la capacità distintiva dei singoli individui con il loro servizio sociale” (1916, p. 360). Ciò richiederebbe la revisione di un sistema educativo che è diventato sempre più un’immagine speculare del mercato, portandoci a ribadire l’affermazione di Dewey, secondo il quale il tipo di istruzione che lo interessava non era “qualcosa che ‘adattasse’ i lavoratori all’attuale regime industriale; non sono abbastanza filo-regime per volere questo” (1916, p.42). Perché è vivendo la vita in un ambiente che promuove la prosperità umana che gli adulti di domani non potranno più accettare niente di meno che tali relazioni democratiche e abilitanti nel mondo del lavoro e nella vita civile in generale.
Conclusione
Questa presentazione ha argomentato che gli studenti di tutte le età hanno diritto a un’educazione autentica che espanda la loro comprensione del “lavoro” come fonte di realizzazione personale, e ha sostenuto che la maggior parte dei programmi di educazione al lavoro tende a presentare il mondo del lavoro in modo reificato, incoraggiando i partecipanti a rispettare, acconsentire e colludere, piuttosto che a comprendere, sfidare e contestare. Questo mio lavoro ha inoltre difeso quei programmi di educazione al lavoro che promuovono la comprensione di come, nel tempo e nello spazio, le comunità hanno lottato per migliorare le condizioni in cui hanno lavorato e, in alcuni casi, hanno persino iniziato a sviluppare sistemi economici che operano con una logica e con dei valori diversi rispetto a quelli del mercato. Un simile curriculum potrebbe essere giustificato se l’educazione viene intesa come uno sforzo che trasmette (educare) ed estrae (educere) il meglio di ciò che l’umanità può essere. L’educazione al lavoro così intesa coinvolgerebbe gli studenti in un discorso che decostruisce, interrompe e sfida il sistema economico, in tutte le sue forme complesse, evidenzando gli sforzi che hanno chiaramente dimostrato che “un altro mondo è possibile”.